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Sindrome dell’ovaio policistico e corretta alimentazione.

Premessa.

Una patologia che sicuramente ha un importante impatto non solo in termini prettamente fisiopatologici ma anche psicologici e sociali è la sindrome dell’ovaio policistico. In questo articolo vedremo come l’alimentazione può interferire in maniera positiva e negativa su questa problematica.

Che cos’è l’ovaio policistico?

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un comune disordine metabolico che colpisce il 5-10% delle donne durante la loro vita, originandosi generalmente nel periodo puberale e protraendosi per tutta l’età fertile. È caratterizzata dall’ingrossamento delle ovaie, dalla presenza di cisti ovariche multiple e da alterazioni di tipo endocrino e metabolico e viene tutt’oggi considerata come una delle più comuni cause di infertilità nella donna.

Le manifestazioni cliniche sono sicuramente più intense e portano a complicazioni più gravi quando vi sono condizioni patologiche concomitanti come l’obesità di tipo addominale, in questo caso infatti è abbastanza frequente l’insorgenza di ulteriori alterazioni endocrine e metaboliche come l’insulino-resistenza, la dislipidemia e l’ipertensione oltre ad un aumento generalizzato del rischio cardiovascolare. In ogni caso indipendentemente dal fatto che ci sia una condizione di obesità, che è comunque presente in circa il 50% delle donne con PCOS, il rischio cardiovascolare è di gran lunga maggiore nel periodo menopausale e post-menopausale.

La più importante causa dell’ovaio policistico è l’iperandrogenismo; probabilmente vi è una predisposizione genetica a questa condizione che associata o influenzata da fattori di tipo nutrizionale come diete squilibrate o di tipo fisiologico come l’inattività fisica facilita l’espressione del quadro sintomatologico della malattia.

L’iperandrogenismo è un eccesso di ormoni androgeni causato da una serie di alterazioni a livello ipofisario che nello specifico portano a una eccessiva produzione di ormone LH o luteinizzante ed a un minore rilascio di ormone FSH o follicolostimolante. Tutto ciò porta a cicli mestruali irregolari con ovviamente annessa tutta la sintomatologia di cui tratteremo nel paragrafo successivo. Inoltre, in circa il 30% delle pazienti con PCOS, si verifica un aumento della prolattina.

Sintomatologia.

I sintomi della policistosi ovarica iniziano generalmente durante la pubertà e nel tempo possono aggravarsi. Vi è una spiccata soggettività che porta a una sintomatologia variabile e con gradi di intensità differenti.  Tipici segni clinici, alcuni comuni e altri più rari, sono:

  • sovrappeso o obesità
  • irsutismo con eccesso di peluria su viso e corpo
  • presenza di acne
  • irregolarità mestruale e/o amenorrea

Altri sintomi possono essere scarsa energia, problemi legati al sonno come insonnia e apnee notturne, depressione e ansia, presenza di aree di pelle scura e ispessita (e.g. acanthosis nigricans) nella zona periascellare, nella nuca e nei gomiti. Si possono verificare anche situazioni più complesse durante la gravidanza come diabete gestazionale e parto pretermine soprattutto se è presente una condizione di sovrappeso.

La presenza di una condizione di obesità non è scontata dal momento che la sua insorgenza è più condizionata da fattori alimentari (e.g. diete scorrette) e da inattività fisica anche se effettivamente le alterazioni metaboliche ed endocrine rendono particolarmente difficile il controllo del peso. Tra queste ultime vi è da considerare sicuramente l’iperinsulinemia che aggravata appunto da una condizione di sovrappeso può contribuire a un incremento della produzione ovarica di ormoni androgeni. Un eccesso di questi ormoni causa aumento del rischio cardiovascolare con maggiore facilità a contrarre ipertensione e iperlipidemia (e.g. colesterolemia).

Anche in assenza di una condizione di sovrappeso la sindrome dell’ovaio policistico è associata a un’infiammazione cronica di basso grado e può portare anche a steatosi epatica non alcolica o NAFLD. Per questo e per quanto detto prima, un approccio dietetico corretto può dare molto in termini di miglioramento su alcune alterazioni endocrino-metaboliche.

Diagnosi e cura.

La diagnosi attuale di PCOS si attiene ai criteri di Rotterdam del 2003 (ESHRE/ASRM PCOS Consensus Workshop Group) i quali indicano presenza di patologia quando sono soddisfatti due dei seguenti segni clinici:

  • oligo-anovulazione cronica: irregolarità del ciclo mestruale con possibile anche amenorrea
  • evidenze cliniche e biochimiche di iperandrogenismo (e.g. acne e irsutismo)
  • presenza all’esame ecografico di micropolicistosi e/o aumento del volume dell’ovaio di più di 10ml.

Sebbene i criteri di Rotterdam siano stati universalmente accettati ci sarebbero da considerare tra i criteri diagnostici anche nuovi segni clinici come la resistenza insulinica. Nuove ricerche hanno infatti evidenziato come la resistenza insulinica sia frequente nei pazienti con PCOS e questo meccanismo metabolico fa parte di uno specifico adattamento biologico in risposta a condizioni di iperinsulinemia che si riscontrano in circa il 70-80% delle donne con obesità addominale e in circa il 15-30% di quelle normopeso.

Il trattamento della PCOS non è unico ma dipende dal tipo di quadro clinico presente e spesso può prevedere l’utilizzo di più soluzioni terapeutiche.

I contraccettivi ormonali di tipo estro-progestinico vengono utilizzati per le anomalie mestruali, l’irsutismo e l’acne; generalmente un approccio terapeutico di questo tipo porta a una regolarizzazione del ciclo mestruale e a una diminuzione degli ormoni androgeni circolanti. A volte la terapia è combinata con farmaci antiandrogeni che portano a una sensibile riduzione della sintomatologia.

La metformina viene impiegata per aumentare la sensibilità all’insulina qualora si verifichi un’insulinoresistenza che come detto precedentemente è uno dei segni clinici più frequenti in pazienti obesi. La terapia può correggere le alterazioni metaboliche e endocrine (e.g. glicemia) portando anche a una regolarizzazione del ciclo mestruale ma ha un basso impatto sui segni clinici dell’iperandrogenismo.

In alcuni casi si possono impiegare dei trattamenti più specifici quindi volti a migliorare singoli aspetti clinici del PCOS. Un esempio tipico è l’utilizzo di specifiche creme o antibiotici topici per contrastare l’acne.

Dieta per ovaio policistico: l’importanza dell’alimentazione.

Un corretto approccio alimentare può essere certamente d’aiuto nel contrastare le complicanze causate da PCOS; in particolare sovrappeso e insulinoresistenza come anche dislipidemia, ipertensione, situazioni infiammatorie croniche come steatosi epatica non alcolica e non solo, possono essere tenute sotto controllo apportando alla dieta quotidiana alcuni importanti accorgimenti:

  • in caso di sovrappeso o obesità impostare un regime ipocalorico. L’introito calorico da alimenti deve essere tale da consentire una perdita di peso o meglio di grasso corporeo ed è quindi necessario sia compreso tra il metabolismo basale (consumo energetico a riposo) e il fabbisogno energetico totale (metabolismo basale + calorie derivate dalle attività quotidiane). La perdita di tessuto adiposo porta sia ad una migliore regolazione dell’ormone insulina sia a benefici dal punto di vista cardiovascolare con un miglioramento di alcuni parametri metabolici (e.g. colesterolo, trigliceridi, transaminasi ecc.).

 

  • promuovere il consumo di cereali integrali in quanto oltre a conservare buona parte di minerali e di vitamine del gruppo B sono ricchi di fibre che permettono un più lento assorbimento della componente carboidratica evitando di conseguenza un eccessivo stimolo insulinemico.

 

  • ridurre gli zuccheri semplici al di sotto del 15% dell’introito calorico totale. Un eccesso e un sovraccarico di zuccheri semplici oltre ad avere effetti negativi in termini glicemici ha un notevole potere pro-infiammatorio soprattutto a carico della mucosa intestinale portando spesso a una condizione disbiotica.

 

  • promuovere il consumo di legumi che in quanto ricchi di fibre solubili possiedono importanti e benefiche proprietà a livello endocrino e metabolico.

 

  • garantire un giusto apporto di omega-3. Oltre al ben noto effetto protettivo cardiovascolare, promuovono la “cascata metabolica” di tipo antinfiammatorio del nostro organismo e migliorano la sensibilità insulinica.

 

  • consumare in maniera costante e frequente le verdure che oltre a essere ricche in fibre alimentari conservano al loro interno importanti molecole antiossidanti, in particolare se non ci sono problemi intestinali (e.g. colon irritabile) consumare spesso e variando tra rucola, broccoli, cavolfiori, spinaci, carote ecc..

 

  • evitare picchi glicemici in giornata che si verificano soprattutto quando passa molto tempo tra i pasti principali o quando si effettuano piccoli sgarri quotidiani a base zuccherina. È necessario garantire almeno 5 pasti giornalieri di cui 2 a basso impatto calorico con frutta possibilmente a basso indice glicemico o con frutta secca o yogurt magri.

Riguardo all’acne, comune conseguenza dell’iperandrogenismo, non ci sono specifiche raccomandazioni dietetiche oltre a quelle generiche precedentemente elencate, anche se alcuni studi hanno dimostrato che un approccio alimentare a basso indice glicemico con riduzione di latte e latticini e un incremento di omega-3 potrebbe apportare benefici.

Sono invece sempre più crescenti le prove di un’interferenza positiva in termini endocrino-metabolici sulla sintomatologia da PCOS quando vi è un’assunzione controllata, e associata a una dieta salubre, di molecole come inositolo e antiossidanti (e.g. acido alfa-lipoico o acidi grassi omega-3).

Qualora soffrissi di questa patologia e fossi interessato a migliorare la tua alimentazione o a ridurre il grasso corporeo ti invito a contattarmi per una prima consulenza.

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Dieta per sindrome dell’intestino irritabile.

Premessa.

La sindrome dell’intestino irritabile o IBS (Irritable bowel syndrome) è una condizione patologica diffusa a livello globale e di componente multifattoriale la cui sintomatologia, sovrapponibile spesso ad altre condizioni morbose, può incidere in maniera importante sulla qualità di vita dell’individuo.

Un corretto e ben oculato approccio alimentare seppure non curativo può sicuramente apportare benefici a tutti quei soggetti che soffrono di questa problematica.

 

Cos’è la sindrome dell’intestino irritabile?

Già conosciuta come colon irritabile o colite spastica, l’IBS si caratterizza per fastidio e dolore addominale con gonfiore e sensazione di pancia gonfia, meteorismo e irregolarità dell’alvo; in quest’ultimo caso si possono considerare tre sottogruppi a seconda che vi sia una prevalenza di stipsi (IBS-C) o di diarrea (IBS-D) o un’alternanza delle due (IBS-M).

Tra i fattori di rischio predisponenti e accertati vi sono:

  • condizioni personali: sesso femminile, età compresa tra i 20 e i 50 anni
  • condizioni psicologiche: ansia, depressione, stress e bassa qualità di vita
  • condizioni fisiche: infezioni gastrointestinali, obesità addominale, endometriosi, malattia diverticolare, chirurgia addominale, uso di antibiotici
  • condizioni sociali: stato socioeconomico, situazioni familiari complesse (e.g. abuso di stupefacenti o patologie psichiatriche).

Altri fattori predisponenti di cui si hanno meno evidenze scientifiche sono: basso peso alla nascita, allattamento inferiore ai 6 mesi, basso indice di massa corporea, scarsa attività fisica, condizioni lavorative precarie.

Considerando la distribuzione a livello geografico non ci sono elementi che possano ricondurre l’insorgenza della patologia solo ed esclusivamente ad uno “stile alimentare di tipo occidentale” che, come noto, è piuttosto orientato verso un consumo maggiore di alimenti pro-infiammatori (e.g. carni rosse e conservate, junk food); infatti paesi come Stati Uniti, Italia, Francia e Germania mostrano una prevalenza  a livello di popolazione compresa tra il 5% e il 9% che è la stessa di paesi orientali come India e Cina ed è addirittura inferiore rispetto al Giappone (10-15%). Paesi invece come Canada, Messico, Svezia e Russia presentano una prevalenza tra il 15% e il 30%.

Tutto ciò porta a pensare quanto sia importante e anche determinante la componente sociale, psicologica e genetica individuale in questo tipo di malattia.

Oltre alla sintomatologia classica accennata in precedenza l’IBS spesso si presenta in associazione con altre condizioni morbose come reflusso gastroesofageo, dispepsia funzionale, cefalea, insonnia, debolezza ed in alcuni casi mostra sintomatologia sovrapponibile a malattie autoimmuni come morbo di Crohn, colite ulcerosa e celiachia, anche se queste ultime possono essere escluse in sede diagnostica con l’utilizzo di biomarker specifici.

 

Diagnosi.

Per diagnosticare la presenza di IBS si utilizzano dei criteri ben definiti che prendono il nome di criteri di Roma IV. In base a questi criteri la sensazione di dolore o fastidio addominale accompagnata da irregolarità dell’alvo deve innanzitutto essere stata presente per i sei mesi antecedenti la diagnosi e per almeno tre volte al mese negli ultimi tre mesi, inoltre a tale condizione devono associarsi almeno due dei seguenti sintomi:

  • miglioramento sintomatologia dopo l’evacuazione
  • modifica iniziale della frequenza delle evacuazioni
  • modifica iniziale dell’aspetto delle feci.

L’approccio diagnostico è quindi nella maggior parte dei casi basato su un’anamnesi attenta del paziente che comprende situazione clinica e profilo sintomatologico.

A volte in presenza di ulteriori complicazioni o fattori allarmanti come perdita di peso importante negli ultimi tre mesi, presenza di tracce ematiche nelle feci, storia familiare di patologie gastrointestinali (tipo celiachia o cancro colon-retto), si possono richiedere specifiche analisi cliniche come calprotectina fecale e dosaggio sierologico per la malattia celiaca oppure analisi più invasive come la colonscopia.

 

Dieta.

L’approccio nutrizionale può sicuramente aiutare chi soffre di questa problematica. È necessario prima capire lo stile alimentare e quindi individuare eventuali fattori di rischio presenti già nella dieta; questi ultimi sono per lo più associati a cibi qualitativamente scarsi o che presentano componenti pro-infiammatorie che enfatizzano la sintomatologia tipica dell’IBS.

Un approccio dietetico generico porta a limitare il consumo di zuccheri semplici, carni conservate, bibite zuccherine e gasate, oli di scarsa qualità, fritture, alcolici, spezie irritanti (e.g. pepe, peperoncino, zenzero) e già questo può rappresentare una buona strategia. Qualche riserva invece rimane per quanto riguarda il consumo di fibre dal momento che in alcuni casi come nella IBS-D si potrebbe verificare un aggravamento della sintomatologia; di contro l’utilizzo di fibre insolubili nella IBS-C potrebbe, anche se non è una garanzia, portare a buoni risultati.

Se consideriamo invece un approccio più specifico allora dobbiamo fare riferimento a diete ad hoc e su cui sono stati fatti importanti approfondimenti scientifici, una di queste è la dieta FODMAP.

 

Dieta FODMAP.

Negli ultimi anni è aumentato l’interesse verso questo tipo di approccio dietetico che prevede la limitazione se non addirittura l’eliminazione di alcuni alimenti le cui componenti principali sono state indicate come possibili “aggravanti” la sintomatologia dell’IBS.

Queste componenti, o meglio molecole, sono note appunto come FODMAPs acronimo di Fermentabili Oligosaccaridi (e.g. fruttani e galattani), Disaccaridi (e.g. lattosio), Monosaccaridi (e.g. fruttosio) e Polioli (e.g. sorbitolo, mannitolo, xilitolo). I FODMAPs sono parte fondamentale della alimentazione classica soprattutto di tipo mediterraneo e una loro eliminazione porta appunto a escludere dalla dieta comune importanti fonti alimentari come legumi, frumento, buona parte della frutta, oltre a molti vegetali e latticini. Nello specifico alcuni alimenti da evitare sono:

  • asparagi, aglio, cipolla, crauti, barbabietole, broccoli, cavolini di Bruxelles, cavolo e cavolfiore, finocchi, fagiolini, funghi, porri, radicchio, scalogno e verza
  • anguria, mele, albicocche, ciliegie, fichi, mango, pesche, pere, susine, prugne, cachi, nespole, more, avocado
  • frumento, segale, orzo, kamut, altri derivati industriali del frumento come cracker e grissini
  • prodotti di pasticceria, succhi di frutta, alcolici e superalcolici, caffè d’orzo, dolcificanti artificiali (e.g. sorbitolo, xilitolo, mannitolo)
  • tutti i legumi come soia, ceci, fagioli, lenticchie e piselli
  • frutta secca (e.g. mandorle, noci, anacardi, pistacchi), datteri e fichi secchi
  • cioccolato al latte, latticini, latte vaccino ma anche di pecora e capra, yogurt, gelati.

Gli alimenti esclusi sono tanti, tra cui molti hanno un’importanza nutrizionale non sottovalutabile, basta pensare alle implicazioni benefiche che i legumi hanno sul trofismo della comunità batterica oltre alle interazioni metaboliche di molecole come lecitina e fibre solubili, inoltre un ridotto consumo di vegetali e frutta può portare a deficit vitaminici (e.g. acido folico e vitamina C).

Sta di fatto che la limitazione di questi prodotti ad alta fermentazione sembra porti un beneficio non trascurabile anche in termini di qualità di vita a chi soffre di IBS. Non deve essere però una scelta autonoma ma tale approccio dietetico deve essere valutato da un professionista del settore (e.g. biologo nutrizionista, dietologo o dietista) alla luce del fatto che, come anche detto precedentemente, si possono verificare carenze nutrizionali e squilibri alla flora batterica eubiotica che necessitano di un intervento supplementare con opportune integrazioni appunto vitaminiche o di probiotici e/o prebiotici.

 

Integrazione.

Un’integrazione a base di probiotici o prebiotici o fibre potrebbe apportare benefici a chi soffre di IBS, uso il condizionale in quanto è necessario premettere che fino ad oggi non ci sono pareri scientifici unanimi riguardo a un tale approccio.

L’intestino umano è caratterizzato da una variabilità enorme di specie batteriche che in un individuo sano ma anche malato rispettano una certa proporzionalità, in ogni caso interferire con un sistema complesso e unico per ciascun individuo (si stima la presenza a livello intestinale di circa 400 specie batteriche e migliaia di miliardi di singole unità) può portare sia ad un miglioramento della situazione generale ma anche ad un peggioramento.

L’assunzione di fibre insolubili, per esempio, ha mostrato dare prevalentemente buoni risultati nella IBS-C ma un peggioramento della sintomatologia nella IBS-D, così come le fibre solubili, in particolare il Psyllium, hanno mostrato risultati soddisfacenti in pazienti con solo IBS-C.

A livello di prebiotici, cioè di quelle sostanze (e.g. frutto-oligosaccaridi o FOS, inulina) non digeribili che promuovono la crescita e lo sviluppo di più specie batteriche ritenute benefiche, non si hanno studi ben solidi a disposizione ma si è quasi certi sul fatto che una loro assunzione apporta più effetti positivi che negativi.

L’utilizzo dei probiotici, che sono batteri vivi che alterano e competono con una flora batterica intestinale generalmente compromessa, deve essere invece molto oculato in quanto un loro errato utilizzo potrebbe aggravare la sintomatologia soprattutto in pazienti con IBS-D. Buoni risultati sembrano invece riscontrabili in pazienti con IBS-C e IBS-M attraverso l’utilizzo di ceppi di Lactobacillus (e.g. Lactobacillus plantarum), Streptococcus (e.g. Streptococcus faecium), Bifidobacterium (e.g, Bifidobacterium infantis e longum).

 

Conclusione sulla dieta per colon irritabile

L’IBS è una condizione piuttosto snervante da un punto di vista fisico e anche psicologico, risulta perciò importante porvi rimedio o comunque cercare soluzioni adatte al fine di migliorare la propria qualità di vita. Un corretto approccio alimentare può essere di grande aiuto, perciò qualora fossi interessato ad un piano alimentare personalizzato ti invito a contattarmi per una prima consulenza.

 

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Le uova nella dieta

Premessa.

Le uova sono uno dei più completi alimenti dal punto di vista nutrizionale e oltre a essere comunemente utilizzate nella dieta abituale, costituiscono la base di molti prodotti alimentari soprattutto del settore dolciario.

Generalmente quando si parla di uova il riferimento è a quelle di gallina ma effettivamente sul mercato c’è una crescente rappresentanza di uova di altre specie animali come quaglia, anatra, tacchino e struzzo.

Spesso si dibatte riguardo a quanto questo alimento possa risultare salubre anche e soprattutto in riferimento alla sua importante quantità di grassi e colesterolo, perciò iniziamo ad analizzare le sue componenti nutrizionali per poi definire meglio l’importanza e l’impatto dell’uovo nella nostra dieta.

Componenti nutrizionali dell’uovo.

La sua composizione in termini di macronutrienti è caratterizzata da una maggiore presenza di proteine e di grassi mentre i carboidrati sono presenti in tracce. Nello specifico, considerando che un uovo privo del guscio pesa in media 50 grammi, 7 g sono di proteine, 4 g sono di grassi mentre la parte restante è costituita da acqua e in minor quantità da micronutrienti come vitamine e minerali. Tra questi ultimi vale la pena ricordare:

  • Vitamina A e carotenoidi (luteina e zeaxantina): conferiscono il classico colore giallo/arancio del tuorlo, possiedono attività antiossidante e immunitaria e protettiva degli occhi.
  • Vitamina D: fondamentale nel metabolismo del calcio e nella mineralizzazione della matrice organica ossea, ha anche un ruolo importante nell’immunità.
  • Vitamina B9 o acido folico: coinvolto nella formazione dei globuli rossi o eritropoiesi e dell’emoglobina, partecipa alla sintesi proteica e del DNA; fondamentale anche nello sviluppo del sistema nervoso centrale dell’embrione e del feto.
  • Vitamina B12 o cianocobalamina: oltre alla ben nota funzione eritropoietica, partecipa alla sintesi di neurotrasmettitori (e.g. noradrenalina e dopamina) intervenendo quindi nella funzionalità del sistema nervoso.
  • Lecitina: glicerofosfolipide che oltre ad avere funzione strutturale a livello di membrana cellulare, sembra possegga importanti proprietà anticolesterolemiche.

Altre importanti molecole presenti in buona quantità sono vitamina B8 o biotina, vitamina K2, ferro, fosforo e zinco.

Proteine, grassi e micronutrienti sono spartiti più o meno tra le due componenti ben note dell’uovo e cioè il tuorlo e l’albume. Il tuorlo racchiude tutta la parte grassa e buona parte delle vitamine liposolubili (e.g. A, D, E, K) oltre ad alcuni minerali e circa la metà del quantitativo proteico mentre negli albumi si trova la restante parte proteica priva di grassi, una parte di vitamine idrosolubili (e.g. B12, B9 e B8 o biotina) e altri minerali. Questa ripartizione abbastanza marcata tra grassi e proteine fa sì che l’albume sia uno degli alimenti prediletti in campo sportivo come integrazione proteica naturale.

Le proteine delle uova.

Analizzando la componente proteica e il profilo aminoacidico possiamo sicuramente affermare che l’uovo è un alimento ad alto valore biologico che presenta tutti gli aminoacidi essenziali. Proprio per questa sua caratteristica molte polveri solubili utilizzate nell’integrazione sportiva sono costituite dalle proteine dell’uovo rappresentando così una validissima alternativa alle classiche proteine del siero del latte.

Tra le proteine citiamo l’ovoalbumina, la conalbumina, l’apovitellenina, l’ovomucina e il lisozima, quest’ultima dotata di importante attività antibatterica.

Se consideriamo la quantità proteica in 100 g di alimento, questa risulta sicuramente inferiore rispetto a carni o pesci magri tipo petto di pollo, fesa di tacchino e merluzzo, se infatti nel caso delle uova abbiamo 14 g di proteine, nell’altro caso abbiamo 20/25 g per etto di alimento. Servirebbero quindi 4 uova intere o 8 albumi (circa 280g) per compensare il deficit proteico. A riguardo non lo vedrei come un sostituto di carne o pesce quanto un supplemento proteico naturale nella dieta settimanale da assumere magari non tutti i giorni sia perché le proteine dell’uovo sono potenzialmente allergeniche e non è poco frequente mostrare ipersensibilità quando se ne fa un uso assiduo sia perché la composizione generale dell’uovo, in termini di proporzioni tra i nutrienti, non è paragonabile a quella degli alimenti sopracitati.

Le uova fanno ingrassare?

Non c’è nulla di dimostrato riguardo a ciò, le uova pur contenendo una importante quantità di grassi sembrano non incidere sulla lipogenesi.

È opinione comune che un alimento che contiene tanti grassi sia anche causa di incremento ponderale ma questa visione è ormai superata in quanto si attribuisce più agli zuccheri semplici e aggiunti l’aumento del grasso corporeo, ovviamente nell’ambito di una dieta sbilanciata e di una vita sedentaria.

I grassi degli alimenti, in particolare i grassi saturi dei formaggi o degli insaccati, hanno un impatto negativo più da un punto di vista cardiovascolare come anche i grassi trans presenti principalmente nei junk-food. L’uovo è portatore di grassi per così dire buoni in particolare monoinsaturi (e.g. acido oleico) e polinsaturi come acido linoleico che sembra agisca da modulatore del colesterolo endogeno oltre ad avere importanti proprietà anti-infiammatorie e anti-ateromatose. Il colesterolo invece, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, è stato ridimensionato riguardo alla sua pericolosità.

Le uova fanno male?

Le uova sono state sempre associate al colesterolo e quindi al problema relativo ad un probabile incremento delle LDL cioè quelle particelle che fanno parte del così detto “colesterolo cattivo”. Quest’ultimo ha infatti un alto potenziale aterogeno nel senso che può venir facilmente ossidato per poi formare placche ateromatose a livello delle arterie.

Studi abbastanza recenti hanno rivalutato questa situazione, infatti considerando che solo il 30% del colesterolo alimentare ha effetto sull’innalzamento dei livelli ematici, nel caso dell’uovo c’è anche da considerare l’attività della lecitina e dell’acido linoleico che sembra contrastino con il suo assorbimento oltre a dare un contributo all’innalzamento del “colesterolo buono” o HDL.

Ci sono però importanti controindicazioni relative ad un uso eccessivo di questo alimento, per esempio chi soffre di calcolosi biliare deve sicuramente limitarne l’assunzione in quanto il colesterolo presente aumenta le contrazioni della cistifellea. Un altro problema riguarda il potenziale allergico di molte proteine per cui un consumo eccessivo può portare soprattutto nei bambini ma anche negli adulti a episodi di ipersensibilizzazione.

Quante uova mangiare a settimana?

Si è un po’ concordi sul fatto che il quantitativo ammissibile varia da 2 a 4 a settimana ma si può arrivare anche a 7 nell’ambito di una vita attiva e considerando un contesto calorico e nutrizionale bilanciato. Esagerare non è conveniente e anche se il colesterolo dell’uovo è stato rivalutato è però sempre da limitare soprattutto nei soggetti con ipercolesterolemia o con familiarità per questo problema.

Uova di quaglia e colesterolo

Uova di quaglia e colesterolo.

Le uova di quaglia vengono utilizzate principalmente nella preparazione di prodotti di pasticceria ma ultimamente si stanno diffondendo anche come alimento presente nelle tavole. Vedendo il profilo nutrizionale, a parità di peso c’è una maggiore presenza di colesterolo circa 3 volte l’uovo di gallina come anche di ferro; non la vedo sinceramente come un’alternativa più nutriente o più salubre rispetto all’uovo di gallina.

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L’aperitivo nuoce alla tua linea?

Premessa.

Il rito dell’aperitivo, pur avendo origini datate e risalenti persino agli ultimi anni del ‘700, solo negli ultimi decenni si è notevolmente espanso a tutto il territorio italiano, da cui ha appunto origine, e ai paesi europei limitrofi come per esempio Svizzera, Francia, Germania e Spagna.

Il termine “aperitivo” per essere precisi fa riferimento ad una bevanda generalmente alcolica, ma che può essere anche analcolica, come vino o birra o Aperol/Campari Spritz o cocktail più complessi, che avrebbe la funzione almeno secondo la tradizione di stimolare l’appetito in previsione della cena. In realtà insieme alla bevanda vengono serviti e consumati stuzzichini di vario tipo che vanno dalle patatine alle arachidi salate fino ad alimenti più sazianti come formaggi e insaccati.

Spesso nella pratica in studio una delle domande più frequenti che mi viene posta è su come gestire l’aperitivo, se continuare a farlo o se rinunciarci e soprattutto in che modo questo possa influire sulla forma fisica o sul successo della dieta. Prima di dare un parere è necessario capire in termini nutrizionali le caratteristiche di questo diffusissimo rito sociale.

In termini prettamente calorici quanto rende un aperitivo?

Dobbiamo considerare sia la componente alcolica tipica della bevanda che la componente grassa dei così detti stuzzichini.

Tra le bevande la componente alcolica varia abbastanza e di conseguenza ci sono importanti differenze a livello calorico. Rapportando il tutto a 100ml e considerando le più diffuse bevande a livello nazionale abbiamo in media:

  • birra chiara: 45 kcal
  • vino rosso o bianco: 90 kcal
  • spritz Aperol o Campari: 60 kcal
  • cocktail (e.g. Americano, Negroni, Martini ecc.): oltre 120 kcal.

Facendo due conti verrebbe da pensare che se volessi risparmiare sulle calorie sarebbe meglio consumare una birra o uno spritz ma in pratica non è proprio così in quanto dobbiamo ragionare sulla “serving size” ovvero sulla porzione che generalmente viene servita; quindi un calice di vino apporta in media 120 kcal, una birra classica bionda in bottiglia da 33cl apporta in media 130 kcal, uno spritz che raramente viene servito in bicchieri piccoli può arrivare fino alle 150 kcal.

Il problema non è però solo la componente alcolica di cui approfondiremo a breve ma anche la componente grassa degli stuzzichini. Patatine, arachidi salate, pizzette, tramezzini spesso accompagnati da salse di vario tipo fanno lievitare il totale delle calorie di un aperitivo a più di 300 e solo se ci limitiamo a una porzione di bevanda e qualche pugno di patatine o frutta secca! Spesso e volentieri però non si rinuncia al “secondo giro” ed a volte quello che è solo un aperitivo diventa una cena vera e propria con l’aggravante di una componente nutrizionale fortemente sbilanciata oltre che poco salutare.

Quali sono le conseguenze dell’abuso di alcol e quanto influisce sul nostro organismo?

L’alcol etilico o etanolo è in qualche modo un precursore degli acidi grassi la cui unione con il glicerolo porta alla formazione dei trigliceridi. Una volta ingerito viene ossidato a livello epatico in acetaldedeide e poi in acetato che fuori dal fegato porta alla formazione di acetil-coa, molecola quest’ultima che rappresenta una fonte energetica fondamentale del nostro organismo ma se in eccesso porta anche alla formazione di acidi grassi. Quantità importanti di etanolo sono quindi connesse ad un incremento di trigliceridi circolanti nel sangue che si depositano come grasso nei tessuti.

L’alcol è quindi assolutamente lipogenetico e un suo abuso può portare a conseguenze che vanno ben oltre l’aumento di peso; oltre a essere una sostanza pro-infiammatoria a livello gastrointestinale risulta anche tossico a livello epatico e cerebrale. A livello epatico un’assunzione cronica ed eccessiva può portare a cirrosi ed epatocarcinoma, a livello cerebrale oltra a instaurare meccanismi di dipendenza comporta differenti problemi di natura psichica.

Come viene considerata l’alternativa analcolica?

L’alternativa analcolica dell’aperitivo può avere una validità ma nasconde anch’essa delle controindicazioni. Cocktail alla frutta analcolici sono spesso ricchi di zuccheri come anche una lattina di Coca-Cola non rientra proprio tra le linee guida di una sana alimentazione. Lo zucchero pur avendo un impatto differente rispetto all’alcol è pur sempre metabolicamente parlando una sostanza poco indicata per il mantenimento della linea. Nel contesto dell’aperitivo rimane sempre e comunque il “problema calorico” derivato dall’assunzione di alimenti ipercalorici e poco salutari.

In conclusione, esiste una giusta misura che consenta di tenermi in forma senza rinunciare all’aperitivo?

La risposta è sì e no perché dipende dagli obiettivi che mi pongo. Se per esempio sono tanto esigente con me stesso e voglio definire alla perfezione il mio fisico allora sarebbe il caso di fare un fioretto per qualche mese, se invece non ho questo tipo di esigenze allora un aperitivo settimanale caratterizzato da uno o due bicchieri di vino accompagnati da uno snack di modesta porzione non dovrebbe causare alcun problema, sempre che per il resto della settimana segua una dieta bilanciata e salutare.

Capita però a volte che a seconda del contesto sociale in cui ci troviamo cediamo spesso alle tentazioni nonostante ci si metta tutta la buona volontà nel limitarsi trasformando così un semplice aperitivo in una cena ipercalorica. A riguardo potrebbero risultare utili alcuni miei consigli:

  • prima di uscire di casa fare una merenda sana e saziante in modo da non arrivare troppo affamato. Avere lo stomaco un po’ pieno rallenta inoltre l’assorbimento dell’alcol evitando anche spiacevoli conseguenze qualora ne abusassimo;
  • durante l’aperitivo e se ci troviamo tra un gruppo di persone cercare di tardare o rallentare il consumo della bevanda in modo da non dare l’impressione di aspettarne una replica;
  • anziché consumare stuzzichini tipo patatine o arachidi o pizzette o tramezzini con salse, sarebbe più opportuno ordinare una tartina di pane con affettato di qualità tipo prosciutto crudo o cotto;
  • optare qualche volta, anche se per i buongustai potrebbe risultare un oltraggio, per un vino allungato con seltz o soda tipo spritz bianco o rosso, potremmo così permetterci qualche bicchiere in più;
  • possibilmente fare l’aperitivo nei weekend e non subito dopo il lavoro, potremmo forse sentirci più rilassati e meno affamati evitando così gli eccessi;
  • porsi comunque sempre un limite orario o organizzare la serata in modo che l’aperitivo non sia l’ultimo impegno del giorno.
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Fabbisogno proteico: tutto quello che volevi sapere.

Che importanza hanno le proteine nel nostro organismo?

Le proteine, così come i carboidrati e i grassi o lipidi, fanno parte della categoria dei macronutrienti cioè di quelle sostanze alimentari che devono essere introdotte in maggiore quantità nel nostro organismo per consentire il suo corretto funzionamento. Le loro funzioni sono molteplici, tra le più importanti ricordiamo:

  • mantenimento e sviluppo del tessuto muscolare
  • sintesi di enzimi necessari per l’avvio delle reazioni biochimiche e metaboliche cellulari
  • produzione di ormoni e anticorpi
  • rigenerazione dei tessuti connettivi (e.g. collagene).

È logico quindi dedurre che uno squilibrio a livello di fabbisogno proteico possa portare a conseguenze non sottovalutabili a livello fisiologico.

Come si calcola il fabbisogno proteico dell’individuo?

Esistono delle linee guida elaborate dalla Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU) che tramite appunto i LARN (Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti ed energia per la popolazione italiana) da dei precisi riferimenti in termini di giusta assunzione proteica considerando in primis le fasce di età.  In base a queste tabelle il fabbisogno proteico dell’individuo adulto si attesta mediamente intorno ai 0.9 grammi per Kg (0.9 g/Kg) di peso corporeo. In pratica considerando il peso medio della popolazione italiana per fasce d’età si passa da una quantità raccomandata per i lattanti di 11 g di proteine al giorno ad una quantità per gli individui adulti maschi di 64 g che nelle femmine diventa di 54 g.

Questi riferimenti non considerano ovviamente le possibili variabili soggettive di tipo fisiologico o patologico che possono portare sia ad un incremento di questo fabbisogno che ad un suo decremento; un’attività fisica intensa e regolare, per esempio, è una variabile abbastanza significativa in questo contesto.

Proteine giornaliere

In dettaglio, quali sono alcune delle condizioni fisiologiche più rilevanti che alterano il fabbisogno proteico?

La pratica sportiva è una variabile molto influente in termini di fabbisogno proteico individuale. Uno sport praticato in maniera intensa o duratura aumenta sensibilmente la richiesta proteica soprattutto di quelle componenti elementari che il nostro organismo non può sintetizzare ovvero gli aminoacidi essenziali.

Esistono oggigiorno innumerevoli discipline sportive e tra queste alcune risultano sicuramente più “stressanti” dal punto di vista muscolare rispetto ad altre in quanto portano ad una maggiore risposta infiammatoria per via delle microlesioni che si verificano al tessuto muscolare e connettivo. Attività come il bodybuiding, il crossfit o il powerlifting, per esempio, definite più o meno correttamente di tipo anaerobico, richiedono un consumo proteico individuale spesso compreso tra gli 1.6 g/Kg e i 2.0 g/kg di peso corporeo; tale apporto è quindi necessario per garantire un’adeguata “riparazione” delle suddette microlesioni e di conseguenza per consentire un adeguato trofismo muscolare.

In presenza di attività miste caratterizzate quindi da un alternarsi di fasi aerobiche e anaerobiche a intensità variabile come per esempio pallavolo, pallacanestro e calcio la forbice di adeguata assunzione proteica è molto ampia in quanto in ambito agonistico si associano anche sessioni di pesi per migliorare forza, resistenza e massa muscolare. Ne consegue che si va generalmente da un minimo di 1.4 g/Kg ad un massimo di 1.8 g/Kg di peso corporeo.

Negli sport prettamente aerobici tipo la corsa o il running questo intervallo è leggermente inferiore e generalmente va da 1.3 g/Kg a 1.6 g/Kg di peso corporeo.

Ci sono poi condizioni fisiologiche particolari che portano ad una richiesta proteica maggiore come nel caso della gravidanza e dell’allattamento. Dal secondo trimestre di gravidanza questo fabbisogno aumenta del 15% e si porta a circa il 48% a partire dal terzo trimestre, invece nel caso dell’allattamento l’apporto proteico è di circa il 40% maggiore rispetto alla condizione fisiologica normale per scendere al 26% dal secondo semestre.

L’anzianità è un’altra situazione che merita attenzione in termini sempre di fabbisogno proteico. È normale che a partire dai 40 anni si verifichi una graduale perdita di tessuto muscolare che dopo i 50 anni porta ad una riduzione annuale di circa l’1% di tessuto muscolare. In assenza di un’adeguata e costante attività motoria a 75 anni si può arrivare con una perdita totale di circa la metà del patrimonio muscolare. Oltre alla causa di natura fisiologica vi è spesso anche una crescente inappetenza che porta ad una condizione di malnutrizione per difetto. Generalmente si interviene oltre che con una correzione delle abitudini alimentari anche con un’integrazione di aminoacidi essenziali.

A livello alimentare, quali sono le fonti proteiche ideali?

L’alimentazione in questo contesto ha ovviamente un ruolo fondamentale e imprescindibile. Generalmente gli alimenti di origine animale (e.g. carne, pesce, uova, latticini) sono fonti proteiche definite ad alto valore biologico in quanto complete di tutti gli aminoacidi essenziali a differenza degli alimenti di origine vegetale (e.g. cereali e legumi) che invece presi singolarmente non possiedono questa proprietà. È corretto e giusto anche dire che un’alimentazione di tipo vegano può però ovviare a questa carenza attraverso le giuste combinazioni alimentari, esempio tipico è l’assunzione combinata tra legumi e cereali che può garantire appunto lo spettro completo degli aminoacidi essenziali.

Alimenti come frutta e verdura che sicuramente sono una fonte importantissima a livello di vitamine, minerali e antiossidanti hanno un contenuto proteico molto ridotto che quindi non ha una particolare influenza nel fabbisogno proteico giornaliero almeno paragonato alle altre fonti sopra citate.

Quante proteine al giorno?

Quando si rende necessaria l’integrazione proteica?

L’integrazione proteica è molto diffusa soprattutto in chi pratica attività fisica regolare sia come amatore che come agonista, infatti, come detto precedentemente, si verifica da un punto di vista fisiologico una maggiore richiesta in termini di apporto proteico.

Generalmente si tratta di polveri comprensive di tutte le componenti aminoacidiche, arricchite spesso di minerali e vitamine e caratterizzate da una rapida assimilazione. Risultano sicuramente necessarie laddove il fabbisogno proteico risulta molto elevato o per chi pratica sport a livello agonistico, in quest’ultimo caso infatti allenamenti giornalieri di 4/5 ore e più risulterebbero limitati dai processi digestivi dovuti a un carico alimentare notevole.

Ci sono però anche dei casi in cui vi è effettivamente un uso superfluo di queste sostanze che si verifica soprattutto tra gli amatori. L’uso superfluo è spesso legato alla falsa credenza che un uso spropositato garantisca maggiori risultati in termini per esempio di ipertrofia muscolare. È dimostrato scientificamente che un’assunzione proteica maggiore di 2.4 g/Kg di peso corporeo non porta ad alcun beneficio di tipo anabolico ed un eccesso “non giustificato” di proteine sia tramite alimento che tramite integrazione potrebbe portare a complicazioni a carico dei reni.

Nelle abitudini dietetiche della popolazione quali sono gli errori più comuni in termini di assunzione proteica?

Spesso e volentieri nel mio lavoro capita di dover porre rimedio ad errate abitudini alimentari che se protratte per lungo tempo potrebbero comportare conseguenze non trascurabili a livello metabolico. Due sono i principali errori che si commettono nell’organizzazione di una dieta quotidiana:

  • giornata tendenzialmente glucidica: colazione dolce tipicamente italiana, pranzo caratterizzato da un primo piatto che generalmente è a base di cereali (pasta o riso o pane), cena che soprattutto nei mesi invernali e con prevalenza nella popolazione anziana si riduce a una minestra di verdure a volte accompagnata da fonti proteiche di facile preparazione tipo affettati, insaccati e formaggi

 

  • giornata tendenzialmente proteica: colazione dolce o salata, pranzo con insalatone, tipica mozzarella e tonno, o carne o affettati, cena sempre a prevalenza proteica con carne o pesce o affettati o formaggi o uova.

Nel primo caso un’abitudine di questo tipo protratta per tanto tempo porterà ad un’inevitabile perdita di massa magra e precisamente della componente muscolare in quanto la non adeguata assunzione proteica porta ad una compromissione della funzione plastica del nostro organismo (e.g. rigenerazione del connettivo e delle strutture cellulari) con conseguente calo metabolico dovuto al rallentamento delle reazioni biochimiche cellulari; la perdita di massa magra ha inoltre importanti ripercussioni sul sistema immunitario.

Nel secondo caso invece si va in carenza della risorsa energetica principale cioè i carboidrati, il nostro organismo di conseguenza per ottenere zuccheri è costretto a utilizzare la massa muscolare con inevitabile calo anche in questo caso del metabolismo. Nel caso di assunzioni proteiche elevate e di scarsa qualità si può andare incontro ad acidosi metabolica, calcolosi di acido urico e osteoporosi.

Conclusione.

Si evince da tutto ciò l’importanza di non trascurare l’apporto proteico giornaliero attraverso la dieta per tutte le interazioni metaboliche, e non solo, che esso possiede come anche di evitare inutili eccessi che comporterebbero possibili “sofferenze” al nostro organismo.

In generale si continua a dare poca importanza all’alimentazione perché in caso di abitudini errate non si hanno effetti immediati o a breve termine a meno che non si tratti di intossicazioni o reazioni allergiche, è necessario però ricordare che nel lungo periodo le carenze nutrizionali così come la scarsa qualità dell’alimentazione portano quasi sicuramente a ripercussioni negative sul nostro organismo.

Nel caso si abbiano dubbi su come impostare una giusta ed equilibrata alimentazione il mio invito è sempre quello di rivolgersi ai professionisti del settore e di evitare quindi il fai da te.

 

 

 

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Fruttosio, Dolcificanti, Stevia. Riflessioni sulle alternative allo zucchero tradizionale.

Premessa

La necessità di consumare alternative più o meno naturali allo zucchero tradizionale (e.g. saccarosio) nasce dalla amara constatazione che da almeno 30 anni nella dieta o nelle abitudini alimentari del mondo occidentale vi è effettivamente un eccesso di zuccheri semplici che è stato ed è tuttora causa di patologie a livello endocrino e metabolico.

 

Può essere quantificato o meglio specificato questo abuso di zuccheri?

Spesso nella routine quotidiana non ci rendiamo conto di quanti zuccheri si consumino, infatti oltre al classico zucchero o saccarosio, indifferente sia esso raffinato o di canna, da aggiungere al caffè o al tè spesso e volentieri si abusa di altri alimenti ricchi in zuccheri come la cioccolata, il gelato, i cereali da colazione, i vari tipi di biscotti, le bibite gassate, i succhi di frutta, ecc. Il fatto che il dolce o in generale gli zuccheri aumentino la produzione di endorfine, neurotrasmettitori implicati nei circuiti neuronali della gratificazione, porta molti soggetti a cercare soddisfazione seguendo questo genere di approccio che è dieteticamente sbagliato ma più semplice da perseguire piuttosto che dedicarsi alla pratica sportiva che in fin dei conti possiede effetti anche migliori in termini di gratificazione oltre agli innumerevoli benefici sia di tipo fisico che salutistico.

 

Quali sono le conseguenze in termini salutistici di questo abuso?

È un dato di fatto che tutti gli zuccheri semplici non siano proprio degli alleati dei regimi dietetici siano essi ipocalorici, normocalorici o ipercalorici, un loro eccesso è infatti strettamente correlato sia al rischio di sviluppare diabete di tipo II o comunque forme di resistenza insulinica sia alla possibilità di sviluppare condizioni infiammatorie croniche a livello della mucosa intestinale.

Ovviamente più l’individuo è attivo fisicamente meno quel surplus di zuccheri semplici avrà ripercussioni a livello endocrino e metabolico dal momento che può venir sfruttato come fonte energetica durante la pratica sportiva. Non bisogna però sottovalutare l’asset genetico individuale e quindi la facilità magari di alcuni soggetti pur attivi fisicamente a sviluppare le suddette complicanze.

Il consumo eccessivo di zuccheri è riconosciuto come la principale causa dell’epidemia di obesità che affligge soprattutto i paesi occidentali e i più industrializzati, Stati Uniti in primis; una visione differente rispetto a quella di parecchi anni fa in cui il principale imputato erano i grassi. Questi ultimi, in particolare grassi saturi e trans, rimangono sempre delle componenti alimentari ad alto rischio dal momento che un loro eccesso porta a gravi disordini di tipo cardiovascolare.

 

Che tipo di alternative agli zuccheri comuni sono presenti sul mercato?

La ricerca scientifica in campo alimentare ha cercato di sviluppare delle alternative che simulassero il potere dolcificante del saccarosio o dello sciroppo di glucosio (forma presente in molte bibite gassate) senza però apportare calorie ed evitando interferenze a livello metabolico. Ciò ha portato alla commercializzazione dei dolcificanti sintetici di cui andremo tra poco a vederne le caratteristiche, infatti meglio prima fare un’opportuna classificazione di quelle che sono le alternative naturali e sintetiche allo zucchero tradizionale.

I più comuni dolcificanti sintetici sono:

  • aspartame
  • acesulfame k
  • saccarina

I più comuni dolcificanti di tipo naturale sono:

  • miele
  • fruttosio
  • xilitolo
  • sorbitolo
  • stevia

 

Dolcificanti sintetici

I dolcificanti sintetici sono molecole create in laboratorio, hanno un potere dolcificante maggiore del saccarosio ma sono acalorici e per lo più ininfluenti in termini di stimolo insulinemico.

Il potere dolcificante (p.d.) prende sempre come riferimento di base lo zucchero comune o il saccarosio e si stima che il p.d. dell’aspartame sia di circa 200 volte maggiore e quello della saccarina di circa 400 volte. Questo significa che servirebbero 200-400 grammi circa di saccarosio per ottenere lo stesso sapore dolce dato da 1 grammo di dolcificante.

Ovviamente sorgono tanti dubbi riguardo alla loro sicurezza in termini salutistici più che altro perché non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine sul nostro organismo, per questo vi è sempre una dose massima giornaliera da non superare come anche c’è l’invito a limitarne o evitarne l’uso in condizioni fisiologiche particolari come gravidanza e allattamento.

Si discute inoltre su un loro possibile seppur minimo condizionamento delle funzioni endocrine e metaboliche del nostro organismo. Alcuni studi recenti, ma che necessitano di ulteriori conferme, affermano che in qualche modo queste sostanze possano stimolare per via indiretta la produzione di insulina interferendo sui mediatori che regolano la sensazione di sazietà.

 

Dolcificanti naturali

I dolcificanti naturali sono molecole già presenti in natura, per scopi commerciali alcuni vengono estratti da altre matrici alimentari (e.g. il fruttosio dallo sciroppo di mais). Generalmente hanno potere dolcificante simile al saccarosio, sono calorici (eccetto la Stevia) ma hanno un impatto inferiore in termini di stimolazione insulinica.

Un discorso a parte meritano il fruttosio e la stevia.

 

Fruttosio

Questo zucchero fu ampiamente utilizzato come alternativa al saccarosio negli anni ‘90 in quanto ritenuto meno “invasivo” in termini metabolici soprattutto per i soggetti diabetici. Effettivamente il potere dolcificante è maggiore (e.g. 1.5 volte il saccarosio), ha quindi un indice glicemico inferiore, ma si è poi scoperto che possedeva altre proprietà non proprio salutari; è stato infatti definito un “metabolic deranger” ovvero un disturbatore o distruttore metabolico per le complicanze a livello epatico a cui può portare. È opportuno evidenziare alcune caratteristiche:

 

  • Pur essendo dal punto di vista molecolare molto simile al glucosio ha meccanismi di assorbimento piuttosto differenti. Non esiste a livello fisiologico un controllo enzimatico che ne limiti l’assorbimento a livello epatico come invece avviene per il glucosio.

 

  • È fortemente lipogenetico quindi una volta scomposto a livello epatico in molecole più elementari (e.g. didrossiacetone-fosfato e gliceraldeide-3-fosfato) porta alla sintesi dei trigliceridi. Studi clinici hanno appunto confermato che elevati livelli di fruttosio nella dieta portano ad un aumento dei trigliceridi plasmatici.

 

  • Il fatto che stimoli di meno la secrezione insulinica porta ad avere un minore senso di sazietà e ciò induce ad assumerne più del dovuto.

 

  • Non stimola la leptina né la grelina; il primo è un regolatore della spesa energetica, il secondo invece regola il senso dell’appetito.

 

Tutto ciò porterebbe a pensare che anche il consumo di frutta, dove il fruttosio rappresenta lo zucchero principale, risulterebbe controindicato ma in realtà in questo contesto lo zucchero in questione si trova insieme alla matrice fibrosa che ne riduce l’assorbimento a livello intestinale; risulta però sempre valido l’invito a non consumarne mega dosi soprattutto nei soggetti diabetici.

 

Stevia

Il dolcificante naturale in questione è ottenuto da un arbusto originario del Sud America. Da esso si estraggono le componenti elementari tra cui gli steviosidi che sono quelli che vengono poi commercializzati.

Il potere dolcificante è molto alto, circa 300 volte il saccarosio, ma a differenza degli altri dolcificanti naturali possiamo definirlo acalorico e ininfluente in termini di stimolazione insulinica. Pare strano che una sostanza naturale non abbia alcuna interferenza a livello metabolico ma la ragione è perché le sue componenti non vengono digerite a livello intestinale.

Anche in questo caso come per i dolcificanti sintetici si invita sempre a non eccedere nelle dosi dal momento che non sono ben chiari o meglio noti gli effetti a lungo termine.

 

Qual è alla fine la migliore alternativa allo zucchero tradizionale?

Il problema non è lo zucchero comune o il saccarosio ma capire come usarlo e quanto usarne. Se generalmente seguo un regime dietetico già di per sé povero in zuccheri semplici e ricco in fibre, non sono certamente quei 2/3 cucchiaini di zucchero al giorno aggiunto al caffè che portano a sviluppare problemi metabolici. In caso invece la mia dieta sia particolarmente squilibrata e preveda il consumo frequente di dolci, bibite gassate e cibo spazzatura in generale allora devo correre ai ripari non solo limitando o trovando alternative al saccarosio ma ovviamente rivoluzionando in meglio un po’ tutto il mio regime alimentare.

In ogni caso l’utilizzo delle alternative è consigliato, soprattutto ai soggetti diabetici, e tra le varie opzioni mi sentirei solo di escludere il fruttosio per le complicazioni di tipo epatico e metabolico a cui un suo eventuale eccesso può portare.

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Tutta la verità sulle formule “brucia grassi”

Premessa 

Negli ultimi anni la sempre più crescente richiesta di “diete miracolose”, capaci quindi di coniugare una veloce perdita di peso col minimo sforzo, ha portato all’immissione sul mercato di una quantità varia e infinita di prodotti dalla dubbia credibilità ed efficacia.

Questi prodotti, commercializzati per lo più sotto forma di bevande o integratori liquidi e contenenti principi attivi derivati da alimenti ben noti come per esempio ananas, zenzero e tè verde, vengono spesso accompagnati dalla dicitura “brucia grassi” ma la realtà è ben diversa da ciò che si vuol far credere.

L’alimento o la sostanza “brucia grassi” rimane e forse rimarrà una chimera, non esistono infatti al momento principi attivi o molecole capaci di permettere un’immediata ossidazione del grasso corporeo come anche, vedendola da un punto di vista puramente metabolico, non sono state identificate sostanze che agiscano esclusivamente come stimolatori di vie metaboliche o che portino ad un consumo maggiore del grasso corporeo. Stimolare il metabolismo e/o la termogenesi è certo fattibile ma lo si può fare solo attraverso un buon “connubio” tra apporto di carboidrati e proteine come anche mediante un incremento dell’attività motoria.

Perché enfatizzare determinati alimenti se alla fine non possiedono queste proprietà?

Ananas, zenzero e tè verde, per fare un esempio, contengono alcuni principi attivi che presentano delle proprietà interessanti ma queste non hanno nulla a che vedere con ipotetiche funzionalità lipolitiche. È noto e poco discutibile il fatto che estratti contenenti bromelina (principio attivo dell’ananas) abbiano un effetto drenante o anti-edematoso come anche non è sicuramente opinabile e anzi avvalorato scientificamente il ruolo come antiossidante dell’epigallocatechina gallato, il polifenolo contenuto nel tè verde. Analogo discorso vale per i gingeroli (principi attivi contenuti nello zenzero) che godono di importanti proprietà antinfiammatorie e antiemetiche.

Si tenta quindi di sfruttare la notorietà o meglio la credibilità di determinati principi attivi accostando ulteriori e poco credibili vantaggi in termini metabolici. Il resto lo fa poi il marketing con tutta una serie di tecniche di vendita che spesso associano il prodotto di interesse a figure ben note del panorama mediatico.

Potrebbero esistere in natura sostanze che bruciano velocemente i grassi in eccesso del nostro organismo?

Sostanze che bruciano in maniera diretta i nostri grassi non ce ne sono, non sicuramente a livello alimentare. Se comunque una siffatta sostanza esistesse e venisse consumata porterebbe a importanti alterazioni in termini termodinamici che risulterebbero incompatibili con la nostra vita, infatti quell’ipotetica sostanza capace di “bruciare” il nostro grasso provocherebbe una fuoriuscita di energia termica che il nostro organismo non sarebbe in grado di arginare con i suoi meccanismi termoregolatori. Sarebbe meglio disperdere invece questo potenziale energetico in una frazione di tempo maggiore attraverso dell’energia meccanica ovvero con della buona e sana attività fisica.

Il discorso invece è differente riguardo ai promotori metabolici, tanti principi attivi infatti sono in fase di studio (per esempio molecole derivate dalla garcinia, dalla rodiola e dal fucus) ma c’è ancora poco di concreto, pochi invece hanno effettivamente un ruolo metabolico importante, per esempio caffeina e nicotina, anche se con importanti implicazioni negative in termini salutistici.

Un abituale consumo di queste due sostanze comporta sì un aumento del metabolismo basale (consumo energetico in fase di riposo) ma nel caso della caffeina c’è da considerare una dose limite giornaliera da non superare per non andare incontro a una sovra-stimolazione del sistema nervoso centrale come anche ci sono da valutare numerose controindicazioni per chi soffre di problemi cardiovascolari, nel caso invece della nicotina oltre al probabile instaurarsi di una  dipendenza, ci sono tutta una serie di ben note complicazioni e patologie causate dal fumo di sigaretta.

Conclusione

Escludendo caffeina e nicotina, è probabile che ci siano molecole in campo alimentare che agendo da “stimolatori”, per esempio del sistema nervoso, possano in un certo senso facilitare una perdita di grasso corporeo, ma ancora nulla è dimostrato o documentato.

Sono anche del parere che un loro utilizzo non avrebbe senso se non associato a un corretto stile alimentare o comunque ad una “terapia dietetica” mirata al mantenimento, allo stimolo e se non addirittura alla crescita del metabolismo corporeo. Aggiungendo poi una regolare attività motoria potremmo ottenere risultati concreti e durevoli oltre a un indubbio beneficio psico-fisico. Solo in questo caso sarebbe sì corretto associare l’attributo “brucia grassi” a una dieta così strutturata, sempre che il suddetto temine sia inteso in termini di stimolo metabolico!

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Chiusura Ferie Estive

Si avvisa che lo studio nutrizionale rimarrà chiuso da sabato 8 agosto a lunedì 24 agosto compresi.

Le prenotazioni per l’ultima settimana di agosto e per settembre sono già attive, inviate pure una mail a mel.nutrizionista@yahoo.it o mediante finestra dedicata nel sito www.mauromeloni.it oppure inviate un messaggio WhatsApp al 340-1745550. Vi risponderò appena possibile!!

Mauro Meloni

 

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Nutrizionista, dietista o dietologo? Facciamo un po’ di chiarezza

Premessa 

Nutrizionista, dietista e dietologo sono tre figure professionali sanitarie che si occupano di alimentazione e per legge sono le uniche che possono determinare piani alimentari o diete come anche valutare lo stato nutrizionale di un determinato individuo, quindi nello specifico se sussiste una condizione di obesità o sovrappeso o magrezza eccessiva oppure una condizione di malnutrizione per eccesso o per difetto.

Spesso si crea confusione riguardo alle competenze e alla formazione accademica e professionalizzante di ciascuno.

Nutrizionista

analisi composizione corporea
dietologo o dietista

Generalmente a questo termine si associa la figura del biologo e precisamente quella del biologo nutrizionista. In effetti il termine “nutrizionista” è molto generico in quanto anche un dietologo o un dietista potrebbe essere “nutrizionista” anche se con titoli differenti. Sarebbe perciò più opportuno quando si fa riferimento a un biologo che si occupa di alimentazione utilizzare il termine “biologo nutrizionista”.

Il biologo nutrizionista è un laureato in Scienze Biologiche iscritto alla sezione A dell’Ordine Professionale dei Biologi. La sua formazione accademica può variare, dalla laurea quinquennale (generalmente dei vecchi ordinamenti) alla laurea triennale associata a due anni di laurea specialistica in Scienze dell’Alimentazione; opzionali ma comunque raccomandati sono ulteriori corsi specifici post-laurea come master privati o accademici o scuole di specializzazione.

A differenza del dietologo, di cui si tratterà successivamente, il biologo nutrizionista non può prescrivere farmaci o esami clinici specifici ma può elaborare diete o piani alimentari in completa autonomia come anche può valutare l’eventuale presenza di una condizione di malnutrizione per eccesso o per difetto oppure una condizione di obesità, sovrappeso o sottopeso.

L’analisi della composizione corporea tramite bioimpedenza come anche la calorimetria indiretta pur non avendo valore diagnostico possono risultare strumenti utili alla professione che consentono di stimare il metabolismo basale e il fabbisogno energetico dell’individuo e permettono di valutare quindi in maniera più precisa le sue spese energetiche.

Pur non potendo diagnosticare una condizione patologica il biologo nutrizionista può però agire per migliorare il benessere del soggetto quando ci sono condizioni morbose o patologiche in atto; è necessario a riguardo avere consapevolezza dello stato di salute del paziente e per questo in casi particolarmente delicati come per esempio possono essere condizioni di insufficienza renale oppure chemioterapie oncologiche in atto è altamente consigliabile fare riferimento o collaborare con determinate figure mediche come nefrologo o oncologo.

Stesso discorso vale in caso di pazienti con disturbi del comportamento alimentare, infatti è opportuno valutare il coinvolgimento durante la “terapia dietetica” di altri professionisti come psicologi e psichiatri.

Il biologo nutrizionista oltre alla sua attività in regime di libera professione può anche stipulare contratti di collaborazione con mense lavorative e scolastiche come anche con atenei o scuole professionalizzanti in veste di esperto del settore alimentare o nutrizionale.

dietologo o nutrizionista

Dietologo

Il dietologo è a tutti gli effetti un medico quindi un professionista laureato in Medicina e Chirurgia con specializzazione in Scienze dell’Alimentazione o Dietologia. Può diagnosticare eventuali patologie o condizioni patologiche, richiedere tramite prescrizione approfondimenti clinici e analisi ematiche e può determinare le diete in piena autonomia con l’eventuale ausilio di strumentazione analitica (bioimpedenza e calorimetria) per la stima del metabolismo o dei fabbisogni energetici individuali. Generalmente lavora alle dipendenze di un’azienda sanitaria o in regime di libera professione.

Secondo la legge ogni medico può occuparsi di alimentazione o nutrizione umana anche senza specializzazione ma in tal caso non può utilizzare il titolo di “specialista” ma quello di “esperto” anche se in quest’ultimo caso sarebbe meglio acquisire maggiori competenze attraverso corsi di perfezionamento o master anche di natura accademica.

Dietista

Il dietista è un altro professionista del settore nutrizione con una formazione accademica differente rispetto alle precedenti. Possiede una laurea triennale in Dietistica facente parte del gruppo di lauree sanitarie della facoltà di Medicina e Chirurgia. Il superamento dell’esame di stato lo abilita all’esercizio della professione ma la categoria non dispone di un albo o ordine proprio come nel caso invece del medico o del biologo.

La sua attività professionale che va dall’elaborazione di diete alla valutazione dello stato nutrizionale dell’individuo con le stesse pratiche analitiche viste in precedenza è però condizionata dall’atto prescrittivo che può essere solo di natura medica, per questo necessita sempre della supervisione di un medico.

Generalmente svolge la sua professione presso ambulatori o ospedali, può collaborare nel settore della ristorazione (mense scolastiche e lavorative) e tenere corsi di educazione alimentare presso strutture pubbliche o private.

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Dieta chetogenica: è efficace o è una moda?

Che cos’è la dieta Chetogenica

La dieta chetogenica è nata come protocollo dietetico utilizzato fin dal lontano 1920 a livello clinico per disturbi di natura neurologica e col tempo si è evoluta con validi riscontri anche per applicazioni alla terapia nutrizionale mirata al calo ponderale.

Tutt’oggi è al centro di numerose ricerche scientifiche per le sue possibili implicazioni positive nel trattamento di pazienti con disturbi di tipo neurologico come epilessie refrattarie al trattamento farmacologico, emicrania, morbo di Parkinson e Alzheimer; per quanto riguarda invece il suo impiego nella terapia dietetica sono ormai abbastanza forti le evidenze a sostegno di una sua efficacia nella trattamento dell’obesità grave soprattutto in presenza di dismetabolismi, ipertensione e resistenza insulinica o diabete di tipo 2.

Molte istituzioni ne hanno riconosciuto l’utilità in campo clinico come il Sistema Sanitario Nazionale della Gran Bretagna (NHS); l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) ha imposto dei requisiti minimi in termini di ripartizione dei nutrienti almeno nel caso della VLCKD che sarà specificata in seguito. Indicazioni sul suo utilizzo sono state rilasciate anche dalla ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica) come anche la SIE (Società Italiana di Endocrinologia) ha riassunto le evidenze scientifiche in termini di benefici con annesse specifiche controindicazioni.

Meccanismi fisiologici della chetogenesi

Il regime dietetico di tipo chetogenico è in grado di indurre e mantenere uno stato cronico di chetosi che è una condizione metabolica in cui vengono utilizzati i corpi chetonici come fonte energetica.

In un’alimentazione normale e bilanciata, per esempio la dieta mediterranea, il glucosio rappresenta la fonte energetica primaria e anche la sua scarsa assunzione nel breve periodo porta il nostro organismo a utilizzare le riserve epatiche e muscolari di glicogeno per mantenere un livello glicemico normale a livello ematico. Protrarre questo periodo di carenza glucidica nel tempo (3-4 giorni) porta a uno “shift” del metabolismo energetico che va a sfruttare i depositi adiposi ed in particolare i trigliceridi che ridotti alle sue molecole elementari (acidi grassi) sintetizzano appunto corpi chetonici.

Nonostante la carenza di glucosio il livello glicemico nel sangue viene però mantenuto costante anche se basso grazie a vie metaboliche particolari che sfruttano il glicerolo (dai trigliceridi) e gli aminoacidi mediante un processo di gluconeogenesi. I corpi chetonici raggiungono perciò una concentrazione ematica maggiore del glucosio e superando la barriera ematoencefalica “nutrono” il cervello, inoltre la loro azione a livello ipotalamico sopprime lo stimolo della fame.

Come e per quanto si mantiene la chetosi e che caratteristiche nutrizionali ha la dieta in questione?

Bisogna fare una premessa importante: la chetosi di cui si parla non è la chetoacidosi diabetica che ha un’altra causa e per lo più effetti tossici e negativi per il nostro organismo, inoltre rimane sempre un meccanismo di emergenza del nostro corpo per far fronte a periodi di carestia; perciò non essendo il meccanismo metabolico energetico preferenziale non può essere mantenuto per tanto tempo.

Generalmente uno stato di chetosi secondo le linee guida non deve essere protratto per più di 12 settimane. Mantenere una condizione di chetosi comporta quindi dover rispettare degli equilibri tra macronutrienti (carboidrati, proteine e lipidi) oltre a un continuo sostentamento mediante integratori vitaminici e fibre.

Esistono diversi tipi di diete che portano a chetosi, tra queste ricordiamo:

  • dieta chetogenica classica: 90% lipidi, 7% proteine, 3% carboidrati. È la dieta chetogenica originale, utilizzata soprattutto in ambito clinico in casi di epilessia resistente ai farmaci in bambini e adolescenti più che nella terapia nutrizionale dell’obesità;
  • dieta Atkins modificata: 60-70% lipidi, 23-30% proteine, 5% carboidrati. Non restrittiva in termini calorici, più semplice da seguire nel lungo periodo e sempre in ambito clinico con una maggiore versatilità e quindi applicabilità in concomitanza a condizioni di obesità;
  • dieta MCT (o supplementata in trigliceridi a catena media): 90% lipidi, (di cui il 30-di trigliceridi a catena media), 10% proteine, 15-20% carboidrati. Presenta maggiori effetti collaterali (disturbi gastrointestinali) per via dell’uso di MCT presenti in grande quantità in olio di cocco e altri vegetali, ha una chetosi molto elevata paragonabile a quella della chetogenica classica;
  • dieta VLCKD (very low calorie ketogenic diet) che è anche quella attualmente più utilizzata nella terapia nutrizionale e che da anni sta sostituendo la dieta chetogenica classica nelle applicazioni cliniche. È una dieta fortemente ipocalorica e normoproteica e con un basso contenuto in lipidi almeno rispetto alle precedenti. La sua diffusione e il suo successo è dovuto in quanto induce una chetosi molto stabile con riduzione del senso di fame, portando ad una maggiore “compliance” da parte del paziente con meno effetti collaterali.

Le fasi della dieta VLCKD

Generalmente la dieta chetogenica si compone di 4 fasi: fase di dimagrimento e di transizione, fase di mantenimento e rieducazione alimentare. Le prime due hanno circa la stessa lunghezza in termini temporali (in media 40 giorni ciascuna).

Si parte quindi da un quasi totale utilizzo di pasti sostitutivi ad alto contenuto proteico e di fibre per il controllo della fame con consumo regolare di verdure e acqua e supplementazione vitaminica e minerale. Successivamente si verifica la sostituzione di un pasto sostitutivo con almeno un pasto convenzionale proteico. Raggiunto il peso ideale si esce dallo stato di chetosi con quindi un aumento dell’introito calorico dovuto ad un inserimento graduale di carboidrati con maggiore presenza di pasti convenzionali proteici e un solo parziale utilizzo dei pasti sostitutivi. Si termina con l’inserimento di ulteriori gruppi alimentari come frutta e legumi, sospensione dei pasti sostitutivi e quota totale dei carboidrati intorno al 45%.

Benefici della dieta VLCKD

  • Miglioramento dei marker metabolici e di infiammazione
  • rapida perdita di peso
  • effetto stabilizzante dell’umore da parte dei corpi chetonici
  • inibizione del senso di fame
  • riduzione selettiva della massa grassa con buona protezione di quella magra.

L’attività fisica durante la dieta chetogenica è raccomandata ma di tipo leggero e non aerobico durante la fase di dimagrimento, nelle altre fasi si può aumentare l’intensità delle sedute di allenamento con introduzione anche di attività motoria di tipo aerobico.

Effetti collaterali

  • Stipsi o diarrea: anche se non comuni si potrebbero verificare per il cambio radicale delle abitudini alimentari.
  • Cefalea: si può manifestare nei primi giorni di dieta fino a stabilizzazione della chetosi.
  • Fame: possibile presenza nei primi giorni di dieta ma che generalmente viene poi controllata dall’effetto “anoressizzante” dei corpi chetonici che agiscono a livello ipotalamico.
  • Alitosi: causata dall’eliminazione di acetone tramite le vie respiratorie.

Per chi è consigliata

  • La dieta chetogenica è indicata in caso di obesità grave o complicata da ipertensione
  • diabete di tipo 2
  • dislipidemia
  • sindrome metabolica
  • osteopatie
  • dimagrimento necessario pre-chirurgia bariatrica o per operazioni chirurgiche imminenti
  • steatosi epatica non alcolica
  • epilessia farmaco-resistente.

Controindicazioni

Non è applicabile in caso di:

  • gravidanza e allattamento
  • disturbi gravi di tipo psicologico e comportamentale
  • abuso di alcol o di altre sostanze che creino dipendenza
  • insufficienza epatica e renale
  • diabete di tipo 1
  • porfiria
  • deficit di carnitina
  • infezioni severe in atto
  • recente ictus o infarto miocardico acuto, angina instabile e insufficienza cardiaca
  • pazienti anziani fragili
  • presenza di alcune patologie auto-immuni.

Conclusioni

Non è sicuramente una dieta che si presta al fai da te come anche non può essere definita una dieta alla moda in quanto l’accesso ai protocolli dietetici avviene in seguito ad attenta anamnesi da parte di personale qualificato; l’utilizzo sconsiderato e la non completa conoscenza della propria condizione fisiopatologica può essere perciò controproducente.

È sicuramente un protocollo alimentare valido grazie alle sempre più crescenti evidenze sulla sua utilità in campo clinico e nella terapia nutrizionale dell’obesità; va però sempre ricordato, soprattutto in riferimento a quest’ultima, che la dieta in questione non rappresenta una “dieta” nel suo significato classico e cioè uno “stile di vita” ma è da considerarsi come uno strumento utile, provvisorio ed a volte risolutivo mirato però alla reintroduzione di un regime alimentare equilibrato secondo i dettami della dieta mediterranea.

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